
Shirley Jackson, con Abbiamo sempre vissuto nel castello, ci trascina in un mondo sospeso tra realtà e delirio, dove l’ordinario diventa inquietante. La storia è narrata da Mary Katherine "Merricat" Blackwood, una giovane donna dall’animo infantile e dallo sguardo distorto sul mondo, che vive isolata con la sorella Constance e lo zio Julian in una grande casa ai margini di un villaggio ostile. Fin dalle prime pagine, la voce di Merricat è ipnotica e straniante, costruendo un’atmosfera soffocante fatta di superstizioni, rituali segreti e paure latenti.
Jackson esplora magistralmente temi come l’alienazione, il pregiudizio e la fragilità della mente umana, mantenendo un equilibrio inquietante tra tenerezza e minaccia. L’ostilità dei paesani, l’ambiguità delle relazioni familiari e la tensione crescente fanno da sfondo a una narrazione che scava nel lato oscuro dell’amore e della dipendenza. Lo stile è essenziale ma carico di suggestioni, capace di evocare immagini vivide e un senso persistente di disagio.
Il romanzo non offre consolazioni facili né risposte chiare: il lettore è costretto a muoversi nel labirinto della psiche di Merricat, tra verità distorte e desideri pericolosi. La casa stessa, con i suoi spazi chiusi e le stanze inaccessibili, diventa simbolo di un rifugio che è al contempo prigione. L’arrivo di un parente interessato alla loro eredità spezza l’equilibrio precario, portando a galla antichi traumi e scatenando eventi drammatici.
L’esperienza di lettura è disturbante ma irresistibile. Jackson gioca con le convenzioni del gotico e del thriller psicologico, confezionando un romanzo che lascia una traccia indelebile. La sua forza sta nella capacità di mostrare l’orrore non come qualcosa di esterno, ma come parte intima dell’essere umano. Alla fine, resta la sensazione di aver attraversato un incubo delicato e crudele, dove l’amore si confonde con la follia e la realtà con la fantasia.
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